È
straordinario che nel dialogo Eutifrone,
il primo dialogo che compare nell'edizione critica delle opere di
Platone, il tema della santità
compaia subito, all'istante.
Caro
Socrate, costoro non sanno niente di cose di religione, e non
distinguono affatto che cosa è
il santo e cosa il non santo. (Platone, 4e)
Sono
propenso a credere che uno dei grandi temi della
riflessione antica, come la
santità,
non compaia in limine
ad una porta così
gloriosa, com'è
appunto la Filosofia di Platone, senza una ragione d'ordine
iniziatico. Come a dire: “Bene, ci sono delle priorità.
Cos'è fondamentale per la nostra Scuola (la scuola platonica)? Cosa
ci tocca insegnare per prima cosa? Sappiamo che il Dio supremo, il
Bene [1], si manifesta in coloro che sono santi … ecco! Occorre dunque
distinguere «che cosa è il santo e che cosa il non santo.
All'inizio la “santità”!
Dovremmo insegnarla per prima cosa, poiché tutto il nostro sapere
passa per essa. Santificare la vita, celebrarla e innalzarla ad ogni istante, questo è il fondamento”.
Oltre
ciò un dato risulta evidente: per le antiche vie di conoscenza l'esistente non continua a vivere senza un tale riconoscimento. La sola esistenza biologica non veniva considerata Vita.
La via sacrosanta della vita è dunque più stimolante del fatto stesso di vivere in un modo qualunque. Tale fu l'impronta decisiva tanto per la parte colta della Grecia classica, quanto per i kabbalisti, Figli d'Israele.
Lo intendi – scrive J.Böhme – se vai fuori da ogni creatura, e, per ogni creatura e natura, diventi Nulla: perché sei nell'uno eterno, che è lo stesso Dio, e così provi la più eccelsa virtù dell'Amore.
La via sacrosanta della vita è dunque più stimolante del fatto stesso di vivere in un modo qualunque. Tale fu l'impronta decisiva tanto per la parte colta della Grecia classica, quanto per i kabbalisti, Figli d'Israele.
Una
domanda: Quei saggi come vollero riconoscere la santità
e dunque riconoscersi nell'Arcano che pre-esiste (forse per - siste)
ad ogni singola vita? Lo scopriremo strada facendo.
L'Uomo
Santo è invero un arcano,
certo! È
un mistero a cui tutte le Carte alludono. E nei Tarocchi si può
addirittura trovare il suo percorso, il modello della sua crescita
spirituale, quantomeno un segno, un indizio, un crocevia.
Nei
Tarocchi si mostra come la singola esistenza abbia modo di
riconnette-si per vivere quali esseri magnificati, innalzati sopra il
fluire dei fenomeni, delle contingenze, degli “scazzi”.
Ma
per prima cosa occorre esser capaci di separare
la santità
contenuta nel simbolismo dei segni (gli Arcani), dalle scorie che la
superstizione e la tendenza idolatrica dei popoli vi hanno inserito.
***
E
la luce fu. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle
tenebre (Gn, 1, 3-4)
Separare,
produrre o fare, realizzare la differenza
tra “questo” e “quello”, tra ciò che sta in “alto” e ciò
che sta in “basso”, tra il “Bene” e il “Male”, ecc.
Questo è il punto cruciale, almeno all'inizio.
Se
oggi molta parte della nostra comunicazione produce rumore, e la
confusione dei messaggi, dei segni e dei simboli soprattutto (pensate
alle pubblicità
e al mondo subliminale a cui ci riconnettono), sembra evocare una
Babele post-moderna, per la Filosofia questa situazione, già
allora, venne vista come una forma più
o meno patologica di delirio, in termini “tecnici” come Caos.
Arginare
il Caos e ricondurlo ad una dialettica armonica che preservi e
addirittura incentivi la creatività,
è
uno dei compiti
degli uomini ritenuti santi:
siano essi filosofi Greci, kabbalisti ebraici, italiani, oppure
chassidim dell'Europa medio-orientale, nuovi tarologi, non importa.
Quello
che davvero conta è
il compito:
esso deve essere chiaro, tanto che la mente quanto il corpo risultino
sufficientemente abili per svolgerlo al meglio.
La
vocazione dei Tarocchi
riguarda ancor di più
l'intima essenza di tale compito, ossia: la sovrana
libertà
e l'efficacia
della grazia divina
nella forma di una
consacrazione
– come vedremo – delle proprie energie
interne
di cui i vari Arcani sono simboli (o segni) poderosi.
Dunque,
«separare
la santità
dei segni»,
come più
volte abbiamo ripetuto, significa saper riconoscere cosa muove dietro
la nostra “scorza” esteriore, per ritrovare libertà
personale e grazia nel mondo.
È
un
discorso profondamente umano quello tarologico,
cosciente invero che la «presenza
divina o del Creatore»,
la sua «immanenza»
(Shekinah), sia il compimento totale di tutte le libertà
personali e di tutte le vite in grado di esprimersi nella grazia –
ossia: senza sforzo, senza danno o violenza per nessuno.
In
epoca di guerre e di avversioni, di soprusi e offese, la presenza
divina scompare dall'orizzonte del mondo, ma non come persona, poiché
come persona non esiste.
Mai
è
esistito
un Dio antropomorfico che non fosse il volto dell'uomo, segnato dalla
diversità
delle singole individualità. Esse sono
capaci di esprimere tutta la bellezza, tutta l'armonia di cui terra e cielo hanno bisogno.
Si
capisce allora per quale motivo Dio si
presenti per primo nella Bibbia con un nome
“al plurale” (~yhla,
Elohim), e si capisce perché
tutta la pluralità
e comunione
di volti umani diventi “In principio” il senso autentico della
Creazione.
Creazione,
nella sua interpretazione “santa”, in accordo con il compito
ritenuto essenziale dai grandi uomini e donne del passato, ha un
primo significato nel Riconoscimento.
Mettiamola
in questi termini (che non sfuggirebbe ad una esegesi attenta del
testo nella sua versione originale):
Io posso riconoscere Dio nel mondo, solamente se riconosco
l'altro essere umano come molteplice aspirazione di qualcosa che ci
accomuna pure nella diversità
delle nostre vite. Poiché
una vita realizzata, ossia divina, in accordo al Dio quale Bene
supremo (Platone), inizia sempre con l'esprimere la
sovrana
libertà
e l'efficacia
della grazia di ciascun essere.
Questo
è
un primo tentativo di traduzione della Torah, come essa fu scritta
nella santità
dei suoi arcani (ovvero le lettere ebraiche). È
solo l'inizio, eppure molto ci sarebbe ancora da dire. Le prime tre
parole traslitterate sono «bə-rê-šîṯ
bā-rā
’ĕ-lō-hîm».
Noi le traduciamo con «In principio Dio creò» (Gn, 1,1) Non è
male, ma ora ne sappiamo di più.
Michel
10122016
***
[1]
«Infatti, Platone disse che l'essenza della divinità
procedette da tre ipostasi, e che il Dio supremo è
il Bene, dopo di lui e secondo è
il demiurgo, terza l'anima del mondo: perché
la divinità procede fino
all'anima» (Porfirio,
Storia della filosofia, Rusconi, 1997, pp. 105 – 107.)
wow!
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